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Elisa Pazé

n' Sogno un mondo in cui nessuno sia così ricco da acquistare qualcuno e nessuno così povero da vendersi'. Lo scriveva Solone nel VI secolo avanti Cristo. Lo ripropone Elisa Pazé, magistrato pinerolese in servizio presso la Procura di Torino, '2.500 anni dopo, inseguendo lo stesso sogno'. Purtroppo, quel sogno che accomuna persone ed epoche diverse e distanti sembra non solo non concretizzarsi affatto, ma anzi allontanarsi sempre di più, in un mondo in cui le diseguaglianze sono sempre più marcate, l'esercito di chi si vende è sempre più folto e quello dei mercanti di schiavi sempre più potente e sfaccettato.

Per questo la riflessione che la Pazé propone nel suo ultimo libro è di particolare attualità e di sicuro interesse. 'Anche i ricchi rubano' è il titolo. Certo, si dirà, lo sappiamo bene. Ma se ad affermarlo (con fior di articolate argomentazioni) è un magistrato specializzato in reati economici, i contorni cambiano.

Anche i ricchi rubano. E truffano. E uccidono. Eppure nel senso comune prevale l’idea che “i criminali siano solo zingari, extracomunitari e sbandati di ogni sorta”. Convinzione diffusa, cavalcata demagogicamente da un bel pezzo di politica: quella che fa del populismo la propria bandiera, alimentando odio e paura nei confronti degli ultimi. Non importa se di fatto gli omicidi in Italia siano nettamente calati (mille nel ‘95, meno di 300 lo scorso anno) e le rapine pure.

Miseria uguale criminalità. Cosa favorisce questa (semplicistica ma radicata) associazione mentale? Pazé mette a fuoco un motivo chiave: i “reati dei poveri” hanno uno schema semplice, sono “elementari, sempre uguali, di immediata percezione”. Uno scippo fa male, una rapina ancora di più. Non c’è bisogno di indugiare a spiegarlo. Più difficile è ricollegare i tumori alle carni imbottite di ormoni o fitofarmaci, gli effetti sui piccoli risparmiatori dei crack delle grandi banche, le morti sul lavoro o le malattie professionali alle colpevoli inadempienze di ricchi imprenditori. Pochissimi sanno vedere il nesso (pure assai stretto) tra evasione fiscale e buche nelle strade o sanità e scuola in grave affanno.

Perché i crimini dei ricchi e potenti sono “più originali e sfumati”, e i loro effetti si scorgono a distanza di tempo. Sono sistematici e “predatori” come quelli di strada, ma gli unici che interessano all’opinione pubblica (non senza colpe da parte dei media), sono quelli commessi da poveri ed emarginati. Chi ruba un portafoglio viene visto come un delinquente assai peggiore di chi inquina l’ambiente, sfrutta gli operai, paga tangenti e corrompe, vende prodotti finanziari spazzatura o non paga le tasse, minando la salute di tutti e defraudando le casse delle Stato.

Condotte dalle conseguenze sociali devastanti ma che continuano a godere, se non di vero consenso sociale, certo di un buon grado di accettazione.

Ai delinquenti in giacca e cravatta (la magistrata li chiama “colletti sporchi”) si perdona, e si condona, qualsiasi cosa. «Da noi manca una cultura della legalità. Siamo uno dei Paesi europei col più alto tasso di evasione fiscale e nessuno si sente un delinquente, al massimo un “furbetto”».

Protetti da una diffusa tolleranza ideologica e culturale, al loro cospetto perfino il linguaggio si fa pudico (il peculato è a tutti gli effetti un furto, ma suona meglio, o, come ricordava Trilussa, «la serva è ladra, la padrona è cleptomane») e la giustizia pare inchinarsi.

«La legge è uguale per tutti, ma il diritto penale ha sempre avuto un occhio di riguardo per i ricchi». Occhio mite, se non di reverente sudditanza. Nel suo ultimo libro, Pazé non ha paura di parlare di «sistema penale diseguale», proponendo una rilettura di alcuni settori del nostro ordinamento.

«Oggi la sfida è riprovare a immaginare e progettare un’economia senza corruzione, evasione fiscale e sfruttamento del lavoro nero. Basterebbe eliminare queste tre piaghe per iniziare a costruire una società meno ingiusta e una distribuzione più equa della ricch ezza… Affermare che il potere deve obbedire alla legge è la più radicale delle rivoluzioni possibili». Non è ancora «la giustizia sociale », ma è senz’altro un modo per «arginare le prepotenze dei privilegiati e restituire volto e voce a chi vive nell’ombra». E dare corpo al sogno che fu di Solone.

“Anche i ricchi rubano”, edizioni GruppoAbele: 189 pagine, tutte da leggere.

LUCIA SORBINO

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